Cucina viterbese: dal primo al dolce

ZUPPA COI FUNGHI

Ingredienti:

1 kg di funghi porcini

olio di oliva q.b.

500 gr. di passata o polpa di pomodoro

peperoncino, sale, aglio e mentuccia

pane tostato.

Preparazione:

In un tegame fare un soffritto con olio, peperoncino, aglio, aggiungere i funghi a pezzi. Rosolarli per alcuni minuti poi aggiungere il pomodoro, la mentuccia, il sale e due bicchieri di acqua. Proseguire con la cottura. Una volta cotto versare il tutto sulle fette di pane tostate. Lasciare riposare qualche minuto e aggiungere un filo di olio a crudo.

CORATELLA DI AGNELLO IN PADELLA CON OLIVE

Ingredienti:

Una coratella di agnello

aglio, peperoncino, finocchio

olio, sale, vino bianco qmezzo bicchiere

Olive nere

In una padella fare un soffritto con olio, aglio, peperoncino, e finocchio. Unire la coratella tagliata a pezzetti e aggiungere 250 ml di acqua, le olive e il sale. Far rosolare per un paio di minuti poi aggiungere mezzo bicchiere di vino bianco. Continuare la cottura e se necessario aggiungere altra acqua calda.

FRITTELLE DI ZUCCA

Ingredienti:

Zucca q.b.

Acqua q.b.

Farina q.b.

Uovo

sale

olio pre friggere

Preparazione:

Togliere la buccia  e tagliare la zucca a fettine sottili che verranno lasciate sottoo sale per un paio di ore. Nel frattempo preparare una pastella con farina, poca acqua, sale e un uovo sbattuto. L’impasto deve essere omogeneo di consistenza semiliquida.Dopo averle di nuovo lavate per eliminare il sale, passarle da entrambi i lati nella pastella per poi immergerle nell’olio bollente. Scolare, aggiustare di sale se necessario e servire.

N.B. Tale ricetta si presta bene anche nella variante dolce, basta sostituire il sale con lo zucchero e aggiungere a picimento nella pastella un pizzico di cannella.

OSSETTI DA MORTO

Ingredienti:

600 gr. di nocciole

4 uova

100 gr. di burro

500 gr di zucchero

100 gr di cioccolato fondente

500 gr di farina

mezzo bicchiere di rhum

cannella q.b.

1 bustina di lievito

Preparazione:

Tostare le nocciole e tritarle. In un recipiente sbattere le uova con lo zucchero, il burro ammorbidito, un pizzico di sale, la cannella, la farina, il rhum, il lievito e per finire il cioccolato fondente tritato. Ottenere un impasto di media consistenza, distenderlo e formare dell strisce da cui ricavare dei rettangoli da adagiare in una teglia rivestita con carta da forno. Cuocere a 180c° per 15 minuti o almeno finchè non avranno assunto in superficie un colore dorato.

MORETTE ALLE CASTAGNE

Ingredienti:

500 gr. di castagne

225 gr. di zucchero

2 uova

120 gr di cacao amaro in polvere

2 cucchiai di latte

Preparazione:

Lessare le castagne con tutta la buccia. Una vota cotte, sbucciarle e passarle al setaccio. In un recipiente mescolare lo zucchero, le castagne e il cacao. In una terrina a parte sbattere le uova, aggiungere l’impasto di zucchero, castagne e cacao e infine i due cucchiai di latte. Impastare per bene tutti gli ingredienti e formare delle pallette da passare nel cacao amaro in polvere e riporre per una mezz’oretta nel frigo.

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Prato Giardino- parte seconda

 

1910. Prato Giardino, il Bosco (Archivio Mauro Galeotti)
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La prima festa organizzata a Prato Giardino avvenne il 5 Maggio 1872 a cura della Società di Mutuo Soccorso. Per l’occasione fu organizzata una corsa di butteri con cavalli e al vincitore andarono cento lire ed il palio in seta con l’emblema della suddetta Società.

La lotteria invece prevedeva numerosi premi ed un biglietto costava ottanta centesimi, l’ingresso venti.

In un Consiglio comunale del 1873 si decise di abbellire Prato Giardino con dei pratini, un giornalista della Gazzetta di Viterbo dell’11 ottobre 1873 scriveva così: «ora non si ha che degli alberi sopra un campo arido e polveroso. E’ stato approvato un progetto di abbellimento con fontane, aiuole e piante di varie specie. Ne è stato esposto lungamente nelle sale comunali il disegno, che si giudica riuscirà di bell’aspetto».

La vasca grande, delimitata dalla classica pietra tratta dal vicino Bullicame, presentava al centro una grande scogliera con delle apposite nicchie che ospitavano, per ripararsi o nidificare, le anatre, i cigni e le oche.

Nel 1874, come riporta Giuseppe Ferdinando Egidi sulla sua guida di Viterbo del 1889, Prato Giardino «fu modificato, come è attualmente, sul disegno dell’ing. Valerio Caposavi viterbese» e a sistemazione ultimata, sempre in quell’anno, i fratelli Schenardi chiesero al Comune ed ottennero di poter aprire all’interno un caffè e una rivendita di bibite. In data 25 Novembre 1874  fu anche stilato un regolamento comunale che, tra l’altro, prevedeva l’apertura durante l’Estate dalle 5 alle 20,30 e l’Inverno dalle 9 alle 17, mentre in Autunno e Primavera dalle 6 alle 18.

Si stabilì, inoltre, che «Ogni ceto di persone può accedere liberamente, esclusi gli accattoni, gli ubbriachi, la gente male in arnese ed i ragazzi che non abbiano chi ne possa rispondere. E’ vietato espressamente l’ingresso ai cani che non siano legati, ai carrozzini ad un cavallo se non sono decenti, agli scozzoni con cavalli a sella, alle vetture tirate da puledri ed ai carretti d’ogni specie. Le carrozze ed i cavalli a sella non potranno introdursi nei viali segnati dalle colonnette.

A niuno è permesso di cogliere fiori, schiantar rami e piante e fare qualunque altro danno agli alberi e alle piantagioni, non che ai sedili, muri ecc. E’ proibito di passeggiare entro le aiuole o di attraversarle come pure d’intorbidare le acque delle fontane e di pescarvi i pesci che vi risiedono».

Ai viali più grandi fu data una denominazione, il Viale Principe Amedeo, ad esempio, conduceva al busto di quest’ultimo; invece, il grande piazzale centrale fu detto Piazzale dei Concerti. Infatti, il sindaco Pietro Signorelli, nel 1886, fece costruire una piattaforma in legno sulla piazza grande, per tenervi i concerti eseguiti dalle Bande musicali di Viterbo comunale e militare.

E’ del  1912 l’inventario che riporta l’elenco delle piante collocate nel giardino, tra le più numerose: centoquarantadue olmi, centotrentuno elci, settantuno aceri, trentuno acacie, ventisette frassini, ventisei tigli, ventuno pini, diciannove noci Nigra, diciotto abeti, diciassette ippocastani, quindici cedri del Libano, tredici cipressi ed undici pioppi.

Verso Via della Palazzina fu eretto nel 1919 un tratto di muro dove vi furono collocate sei cancellate con relative colonnine in ghisa, già poste attorno alla Fontana di piazza delle Erbe.

Nel 1927 fu assunto un custode Angelo Fioretti, il quale si occupò della manutenzione e vigilanza fino al 1936.  In seguito, nel 1929, tale incarico fu affidato anche alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale.

I bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nel 1944, colpirono anche Prato Giardino danneggiando le condotte d’acqua, gli alberi, le panchine e il cancello d’ingresso che, reso irrecuperabile, fu venduto come ferraccio a Giorgio Pacini. L’attuale cancello è stato realizzato verso il 1950 dai fratelli Edoardo e Azelio Felicetti, su disegno dell’architetto viterbese Rodolfo Salcini.

All’interno sono presenti vari monumenti. Quello dedicato a Vittorio Emanuele II voluto dalla Società del Circolo Viterbese, eseguito dallo scultore viterbese Silvestro Zei, l’inaugurazione avvenne il 5 Giugno 1881.

A Giuseppe Garibaldi, fu dedicato un busto su pilastro, inaugurato il 1° Giugno 1884, opera di Silvestro Zei.

Il monumento a Camillo Benso conte di Cavour fu realizzato ad opera dello scultore Silvestro Zei e fu inaugurato il 6 Giugno 1886. Quello al principe Amedeo di Savoia (1845 – 1890), duca d’Aosta, fu inaugurato il 1° Febbraio 1891 e fu eseguito dallo scultore Francesco Fasce.

Il busto in bronzo di Giuseppe Mazzini fu invece eseguito dallo scultore e pittore Ettore Ferrari (1845 – 1929) e fuso da Crescenzi, fu inaugurato il 14 Giugno 1891. Sul fronte del piedistallo, al centro di una corona bronzea, è scritto: A / Mazzini / Viterbo / MDCCCXCI.

L’ultimo monumento innalzato a Prato Giardino è quello al musicista viterbese Cesare Dobici con la scritta Cesare Dobici / 1873 · 1944 / musicista, fu eseguito in bronzo dallo scultore Assen Peikov e fu inaugurato il 6 Giugno 1971, a scoprire il busto è stato Ferdinando Harbel, preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra, discepolo del musicista.

Oggi Prato Giardino, oltre ad essere un luogo animato da giochi per bambini, è utilizzato come luogo per le esposizioni canine, le manifestazioni sonore e cantore e altrettante attività culturali.

Bibliografia: Galeotti, Mauro: L’illustrissima Città di Viterbo”, Viterbo, 2002

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19 marzo…stanno per arrivare le frittelle di San Giuseppe!!!

Viterbo A TAVOLA STORIA C’è chi le chiama “zeppole”, chi “tortelloni dolci”, chi le prapara con la pasta lievita, chi le farcisce con la crema…insomma di tutti i gusti
di Patrizia Labellarte

 

“San Giuseppe frittellaro / tanto bono e tanto caro / tu che sei così potente d’aiutà la pora gente / tutti pieni de speranza / te spediamo quest’istanza”.

Così ci si rivolgeva al padre putativo di Gesù in occasione della sua festa. Ma perché frittellaro?

I testi sacri narrano che quando l’angelo lo esortò a scappare rapidamente dalle ire di Erode e a prendere la strada del Nilo, il bravo falegname – carpentiere, come addirittura lo promuove l’agiografia più accreditata  si era improvvisato friggitore ambulante ed il popolo proprio in virtù di questo suo mestiere gli aveva “appiccicato” l’etichetta di “frittellaro”!

Se la storia sia vera oppure no, questo non si sa, ma la qualificazione che gli viene attribuita dalla Bibbia è chiara: “artiere in legno e industriale in friggitoria”.Da questa ipotesi, peraltro piuttosto fantasiosa, il patrocinio ottenuto da San Giuseppe, oltre che sui falegnami, anche su tutti i venditori di cibo da strada.

Un patrocinio raccolto anche da Goethe, in visita a Napoli sul finire del Settecento: «Oggi era anche la festa di San Giuseppe, patrono di tutti i frittaroli, cioè dei venditori di pasta fritta, beninteso della più scadente qualità…

Sulle soglie delle case grandi padelle erano poste su focolari improvvisati. Un garzone lavorava la pasta, un altro la manipolava e ne faceva ciambelle che gettava nell’olio fumante. Un terzo, vicino alla padella, ritraeva con un piccolo spiedo le ciambelle man mano che erano cotte e con un altro spiedo le passava a un quarto che le offriva agli astanti; gli ultimi due garzoni erano ragazzotti con parrucche bionde e ricciute che qui simboleggiano angeli».

Le fonti più accreditate, pur mantenendo l’epiteto di San Giuseppe frittellaro, tendono a capovolgere il procedimento. Non più San Giuseppe facitore di bignè ma i bignè facitori di San Giuseppe.

Sarebbe infatti accaduto che all’inizio dell’Ottocento quel grande gastronomo napoletano che rispondeva al nome di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, insieme con un altro famoso pasticcere, il Pintauro, avesse scoperto che gli antichi romani il 17 marzo celebravano le feste dette Liberalia, incardinate dal punto di vista mangereccio su frittelle di frumento fritte nello strutto e ricoperte di miele.

Di qui a trasferire i bignè o zeppole che dir si voglia al 19 marzo, inevitabilmente abbinandole al culto di San Giuseppe, il passo era breve. Sarebbe quindi stata la Chiesa, fissando la festività a quella data, a creare a San Giuseppe una specie di rendita di posizione, facendone l’erede di un culto pagano.

Un culto da bande di ragazzini inneggianti a San Giuseppe e alle sue zeppole. Le galline avevano ricominciato a fare le uova: perché rinunciare a riempire i bignè con la crema ? Era un lusso che in quella stagione potevano permettersi anche i poveri.

Quei poveri che così pregavano il padre putativo di Gesù: “O gran Santo benedetto / fa’ che ognuno ciabbia un tetto; / La lumaca affortunata / se lo porta sempre appresso / fa’ per noi pure lo stesso. / Facce cresce sulla schina / una camera e cucina”.

Da qui nasce l’uso di molte regioni italiane di preparare delle frittelle dolci in coincidenza della festa di San Giuseppe. C’è chi le chiama “zeppole”, chi “tortelloni dolci”, chi le prapara con la pasta lievita, chi le farcisce con la crema…insomma di tutti i gusti, ma per noi viterbesi le originali sono solo quelle con il riso!

 

INGREDIENTI:

500gr di riso

1 litro di latte

un pizzico di sale

6 uova

250 gr di uva sultanina

pinoli q.b.

cannella a piacere

scorza di limone o arancia grattuggiata

400gr di farina

300 gr di zucchero

mezzo bicchiere di rhum

1 bustina vanillina

1 bustina lievito per dolci

PREPARAZIONE:

Far cuocere il riso nel latte allungato con un pò di acqua, aggiungere un pizzico di sale e lasciarlo raffreddare. In una terrina lavorare 6 rossi d’uovo con lo zucchero, aggiungere la cannella a vostro piacimento, la vanillina, la buccia grattuggiata di un limone o arancio, mezzo bicchiere di rhum, il lievito, la farina, l’uvetta, i pinoli e la bustina di lievito. Unire le chiare di quattro uova montate a neve.

Incorporare il riso, aggiustare il sapore con aggiunta di altra cannella, zucchero o rhum purchè la consistenza dell’impasto sia una pastella molto densa, collosa.

Lasciare riposare per un’oretta, trascorsa la quale, in una padella o friggitrice contenente olio extravergine d’oliva caldo, gettare dentro delle cucchiaiate abbondanti di questo impasto im modo da ottenere delle frittelle della grandezza desiderata che vanno lasciate cuocere da entrambi i lati, fino a che la superficie esterna non risulta dorata al punto giusto.

Una volta cotte, depositarle su carta assorbente da cucina e ricoprirle con abbondate zucchero semolato o in alternativa, spolverizzarle con abbondante zucchero a velo.

 

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La storia di Prato Giardino di Viterbo (Prima parte)

Viterbo STORIA Si conosce perché, ovviamente, si frequenta, ma quali sono le sue origini, la sua storia?
di Patrizia Labellarte

Ingresso di Prato Giardino nel 1910 (Archivio Mauro Galeotti)

Rappresenta per tutti un luogo di incontro, di svago, dove la natura regna in contrasto al cemento cittadino. Un piccolo angolo di verde testimone di vita…ebbene si, perchè ci ha visto crescere, muovere i primi passi, giocare, così come è stato un rifugio o meglio un nascondino in alcune giornate o in alcuni casi ha anche assistito alla nascita di un nuovo amore: Prato Giardino.

Si conosce perché, ovviamente, si frequenta, ma quali sono le sue origini, la sua storia?

Le sue origini risalgono al XIV quando a questo appezzamento di terreno fu dato il nome Giardino.

Era un terreno con prato e apparteneva alla Dogana del Patrimonio, meta dei castellani papali e luogo di riunione per le esercitazioni militari a seguito della costruzione della Rocca ad opera del cardinale Egidio Albornoz,

Al suo centro era stata collocata una fontana sparita per incuria nel secolo XVII.

La Gazzetta di Viterbo del 9 Settembre 1876 riporta: «Sotto il prato passavano dei cunicoli, che servivano per mettere la rocca in comunicazione coll’esterno e per le sortite e le sorprese in tempo di guerra. Nel passato secolo si vedevano ancora a piè del prato le imboccature, in parte coperte dai rovi, di tre cunicoli, uno dei quali comodamente praticabile per lungo tratto».

Qui si fermavano le mandrie al loro passaggio per la città; si facevano le stime e le divisioni del bestiame; si andava a caccia di allodole; vi si tenevano le manovre e le riviste militari.

L’11 Giugno 1965 un terremoto sconvolse la nostra città e Prato Giardino divenne la dimora di molti  abitanti che qui si accamparono per vari giorni e dove, per volere del vescovo venne innalzato un altare per la solenne benedizione.

La via che tutt’oggi fiancheggia Prato Giardino, via del Pilastro, era detta Via dei Pilastri, per la presenza di tre pilastri messi a dimora all’ingresso sin dal tempo dei Chigi, il cui scopo era di non far entrare le carrozze.

Come risulta dalla Pianta della traversa postale della Città di Viterbo (1821), all’inizio della Via del Pilastro a sinistra, c’era una fontana, posta di fronte all’ingresso di Prato Giardino, la cui posizione venne discussa nel 1873 in Consiglio in quanto un giornalista della Gazzetta di Viterbo la definì “ingombrante”  in quanto intralciava «la linea del transito alla passeggiata».

Il prato si presentava diviso in due parti: il Prato Grande e il Prato Piccolo. Il primo era identificato insieme con fondo Chigi ed altri prossimi terreni, mentre il Prato Piccolo, invece,  era al di là della strada nazionale (Via della Palazzina); con la villa Bonaparte, ora Rattazzi. Era quadrato, costeggiato da una strada che  terminava dove ora termina la villa.

L’attuale Via Prato Giardino era detta sin dal 1713, Stradello del Pilastrino. Tra i proprietari di Prato Giardino nel 1451 vi era la famiglia Monaldeschi, poi nel 1459 la famiglia Gatti.

Dopo il 1551 fu ceduto ai Baglioni, i quali, nel 1626, per estinguere un debito coi Marsciano, vendettero a quest’ultimi, tra l’altro, anche il Prato Giardino. Dai Marsciano passò a Dionora Chigi Montoro nel 1638, fu poi concesso in enfiteusi nel 1734 a Ubaldino Renzoli. Tra i proprietari risulta anche il principe Gerolamo Pamphili Aldobrandini Facchinetti.

Francesco Cristofori, in una nota, riportata circa il 1890, nella rubrica delle Riforme del 1819 – 1820, la descrive:

«Fontana nel predio rustico de li signori Chigi Montoro al prato Giardino. Con la strada che va dal bivio de la Madonna addolorata a le Bussete. Nasce in una grotta da una rupe […]. E’ di uso  pubblico civico inconcusso».

Prato Giardino fu anche triste teatro di esecuzioni capitali per oltre quaranta anni, dal 1571 al 23 Agosto 1612. Vi furono impiccati venticinque uomini, l’ultimo fu Tiberio di Silvestro da Porano. Sul periodico locale Gazzetta di Viterbo, uscito nell’Agosto 1876, sono elencati vari nomi dei condannati in un racconto a carattere satirico

Nel 1821 in un appartamento al secondo piano della villa, appartenuta in quel tempo al marchese Bartolomeo Especo y Vera, prese sede l’Accademia filodrammatica viterbese che vi allestì un teatro con centoquaranta posti a sedere. Il teatro, attivo fino al 1838, fu chiamato Teatro di Prato Giardino e sul sipario era scritto il motto: Castigat ridendo mores.

Finalmente, il 9 Gennaio 1843, il Comune ravvisata la posizione strategica rispetto alla città, deliberò di acquistare Prato Giardino, per destinarlo ad utilità pubblica, ma solo nel 1845 Antonio Calandrelli fu incaricato di attivare le trattative per l’acquisto e, nel 1847, divenne di proprietà pubblica. Nel 1847, infatti, il Comune di Viterbo a seguito di una lunga causa per l’uso di Prato Giardino, prese in enfiteusi perpetua quel terreno, pagando al proprietario, marchese Filippo Patrizi Montoro, un affitto di sessanta scudi.

I lavori di assestamento del terreno ed il tracciato dei viali  ebbero inizio nel 1855, a seguito dell’elevato afflusso di forestieri alle terme.

Il progetto fu realizzato dall’architetto Crispino Bonagente. Innanzi tutto furono piantati gli alberi lungo i viali, grazie ad una sottoscrizione di trentuno cittadini, e nel 1858 fu anche preparato un progetto per l’erezione del muro di cinta, lavoro iniziato l’anno successivo dal mastro muratore Ignazio Agostini, che però si protrasse fino al 1865 a causa di discordie sulla qualità del lavoro.

Fu il Vicario vescovile a sollecitare la recinzione «onde evitare le immoralità, che vi si commettevano di notte tempo!».

Il cancello, per chiudere l’ingresso, fu progettato dall’architetto Virginio Vespignani nel 1872, furono utilizzati quattromila chili di ferro, 1666 chili di ghisa e per i due cancelli laterali cinquecento chili di ferro. Il lavoro fu pagato per la cancellata di ferro, compresa la mano d’opera, lire 1,30 al chilo, per l’ornato e la colonna di ghisa lire 1,50 al chilo.

I venti sedili in pietra da collocare lungo le passeggiate, furono disegnati dall’ingegnere Valerio Caposavi, mentre risale al 1872 la costruzione del muro di cinta lungo Via della Palazzina, il quale nel 1876 crollò in due tratti.

Patrizia Labellarte

Bibliografia: Galeotti, Mauro: L’illustrissima Città di Viterbo”, Viterbo, 2002

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Le carote di Viterbo un prelibato gusto riscoperto

 

Viterbo A TAVOLA STORIA Dal color viola e forma attorcigliata a spirale, queste particolari carote venivano coltivate dai nostri avi
di Patrizia Labellarte 

Le carote furono prodotte anche da Camillo Tosoni, questo è un eccezionale suo vasetto, aveva il negozio al Corso Vittorio Emanuele n° 11/h, oggi Corso Italia, il quale nel 1925 vinse a Livorno un premio per tale prodotto. (Collezione Mauro Galeotti)

Rappresentano la tradizione culinaria viterbese. Molti illustri personaggi del passato, da Mazzini, Mussolini sino ai Savoia hanno potuto assaporare la loro genuinità e squisitezza: le “pastinache” o meglio ancora conosciute come carote viterbesi.

Dal color viola e forma attorcigliata a spirale, queste particolari carote venivano coltivate dai nostri avi. Ed esattamente una particolare cultivar color viola delle comunissime carote o “daucus carota var. sativa“, della famiglia delle Ombrellifere, di cui si conoscono numerose varietà di colore (bianco, rosso, giallo, viola), e di forma (corte, lunghe, cilindriche, coniche, a trottola), preparate e conservate in un bagno aromatico.

Oggi però queste carote colore viola, sono divenute introvabili. Il perché lo illustrano gli agronomi esperti, i quali spiegano che coltivando nel raggio di 800 metri delle carote gialle si ottiene la degenerazione delle altre cultivar e in special modo di quelle viola.

L’originalissima ricetta delle carote viola dolci in bagno aromatico risale al 1467, nel Libro delle spese del Convento della SS. Trinità di Viterbo, dove sono riportate nelle spese sostenute dal frate Cristoforo. Mentre è del 1827, l’anno in cui è datata una certa ricetta di queste carote che il solerte dottor Attilio Carosi ha ritrovato fra i tanti documenti della Biblioteca degli Ardenti di Viterbo.

Per molti anni queste carote erano preparate prevalentemente dalle famiglie aristocratiche di Viterbo e conservate in artistici vasetti di terracotta dei quali si conservano ancora alcuni esemplari che andrebbero raccolti come testimonianza del costume e delle tradizioni locali. Successivamente gli Schenardi, proprietari dell’omonimo famoso Caffè, si diedero alla confezione di queste carote, perfezionandosi al punto da ottenere il primo premio all’Esposizione di mostarde e carote tenutasi in S. Francesco a Viterbo nel 1879.

Successivamente anche il droghiere Giovan Battista Ciardi si dedicò alla produzione di questi vasetti, durata fino a dieci anni fa, quando iniziò appunto l’inquinamento della cultivar.

Anche le suore del Convento di santa Rosa ne curavano la coltivazione e la preparazione.

Tra i produttori delle “Pastinache”, è stato anche il signor Zolla, che consegnò le ultime sementi ad un frate di Vitorchiano, pregandolo di preservare questa qualità di prodotto orticolo. Purtroppo questo non avvenne, per cui nella nostra zona di origine sono scomparse. Grazie ai documenti, agli scritti del passato oggi si è in grado di risalire alla ricetta prelibata di queste carote che erano riservate quasi esclusivamente all’accompagnamento del bollito di carne e pesce.

Per prepararle occorreva tagliare le carote a fette longitudinali, farle seccare al sole e lasciarle a bagno in aceto per alcuni giorni, quindi farle insaporire a caldo in una salsa agro-dolce, composta di aceto, zucchero, chiodi di garofano, noce moscata e, a seconda dei gusti, con aggiunta anche di cioccolato, pinoli, uvetta e canditi.

La conservazione avveniva in recipienti di coccio tenuti coperti semplicemente con un panno o, nel caso di lunga conservazione, in piccoli vasetti sigillati. Di recente le carote viterbesi sono ritornate alla ribalta grazie alla famiglia di un noto professionista Francesco Pasquini dell’Azienda Vita Nova, una delle poche ed ultime a custodirne gelosamente il seme e che pazientemente riesce ancora a raccoglierne la quantità sufficiente per mantenere la tradizione casalinga di questo piatto.

Non meno interesse ha Luca Ingegneri, titolare dell’Azienda agricola La Cisterna di Vetralla in Località Marchionato, che ha realizzato e messo in vendita le Carote di Viterbo con l’amore e la saggezza che nasce da un cuore innamorato delle nostre tradizioni alimentari. Difficile la ricerca dei semi delle carote color viola, quasi scomparsi, ma Luca ce l’ha fatta, ne ha trovati, piantati e raccolti per ridare al palato la carota adatta ad arricchire i bolliti.

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Musicista, compositore, definito ” il miglior didatta di tutta Italia”, nonchè viterbese: Cesare Dobici

Ricorre proprio quest’anno il settantesimo anniversario dell’ illustre compositore viterbese tra i più eminenti docenti del Pontificio Istituto di Musica Sacra della metà del ’900. Figlio di Nazareno, sellaio, e di Lucia Croce, abitava nella casa dove nacque al Vicolo Palombo, oggi Via dei Tignosi. Dopo un primo approccio con la musica, grazie a un frate domenicano francese presso il Convento di santa Maria della Quercia, seguì più specifiche lezioni di pianoforte e composizione nel Convento della Trinità. Fu quindi apprezzato allievo dei maestri di musica Angelo Medori e Salvatore Meluzzi. Dopo questi studi entrò nel liceo musicale di “S. Cecilia” a Roma, dove si diplomò in composizione con Cesare de Santis nel 1899. La fama di Dobici fu legata soprattutto all’attività di insigne didatta, grazie alla rara competenza e profonda preparazione, nonché alla metodica chiara e paziente. Insegnò dapprima al “Reale Conservatorio Musicale di S. Cecilia” (divenuto Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma)nel 1910 e poi al Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma, chiamato dal preside P. Angelo de Santi. Qui gli furono affidate le cattedre di Armonia superiore e Metodica, Contrappunto e Fuga fino all’anno 1940. A Viterbo, sua città natale iniziò la sua attività artistica quale direttore della Cappella Musicale del Duomo, nonché di didatta, con l’insegnamento del canto corale nella scuola magistrale “G. Carducci”. Si affacciò al teatro musicale con due opere rimaste incomplete: “Cola di Rienzo” (in tre atti, libretto di P. Cossa) e “Carlotta Corday”, appena abbozzata. Successivamente si dedicò alle sua vere passioni: la composizione di musica sacra e liturgica e la didattica. La sua attività didattica formò illustre generazioni di allievi italiani e provenienti da pesi esteri. Tra i suoi allievi più famosi si ricordano: Sigismund Toduta (Bucarest),Vieri Tosatti, Ferruccio Vignanelli, Carlo Alberto Pizzini, Enrico Buondonno, Giorgio Colarezzi, Francesco Mander, Biagio Grimaldi, Ennio Porrino, Angelo Turriziani, nonché molti aspiranti compositori provenienti anche dall’estero (Portogallo, Romania, Argentina,Venezuela, Australia, Stati Uniti). Dobici fu tra i fautori, unitamente a Lorenzo Perosi, Luigi Bottazzo, Raffaele Casimiri, Licinio Refice, di un necessario rinnovamento della musica sacra, sulla scia del Motu Proprio promulgato nel 1903 da Pio X, ossia un processo di riforma orientato a nuovi intendimenti musicali, più vicini alla purezza del canto gregoriano e alla polifonia rinascimentale. Sono almeno centosessanta i pezzi del musicista viterbese inediti. Tra i numerosi successi vanno ricordati Tota pulchra a dodici voci per tre cori e tre organi, scritto in occasione del 50° Anniversario del Dogma dell’Immacolata dedicato a papa Leone XIII; la Missa pro defunctis per quattro voci dispari accompagnate dall’organo; la Messa da requiem scritta in occasione della morte del re Umberto I ed eseguita dal Dobici stesso al Pantheon, alla presenza dei reali, e il Dies irae a otto voci, doppio coro, eseguita il 14 Marzo 1907 da centodiciotto cantori. Tra le opere cito il Cola di Rienzo e la Carlotta Corday. Dal 1890 si trasferì a Roma in Via Napoleone III, ma i giorni di riposo li trascorse nella sua Viterbo. Morì a Roma il 25 apr. 1944.

Da due anni a questa parte grazie alle iniziative dell’Associazione Cesare Dobici unitamente alla Corale Polifonica S.Giovanni di Bagnaia, la figura dell’illustre musicista, dopo un lungo tempo caduta nell’oblio è tornata finalmente in auge. Tra le iniziative convegni, concerti, la dedicazione di una sala presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra da parte del M° Mons. Miserachs, un annullo filatetico per celebrare l’anniversario della sua morte, e, non di minore importanza, il restauro del monumento a Dobici situato a Prato Giardino.

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RICETTE VITERBESI: dall’antipasto al dolce

ZUPPA COI FUNGHI

 

Ingredienti:

 

600 gr. di funghi misti,

olio di oliva,

sale,

300 gr di pomodori pelati o polpa,

peperoncino, aglio, mentuccia

pane tostato

 

Preparazione:

 

In un tegame fare un soffritto con olio, aglio e peperoncino, aggiungere i funghi tagliati a pezzi, lasciare insaporire per qualche minuto. Versare, poi, il pomodoro, aggiustare di sale e versare un bicchiere di acqua calda. Lasciare cuocere per circa una mezz’oretta a fuoco basso. Nel frattempo bruscare qualche fetta di pane casareccio. Versare il tutto sulle fette di pane, irrorare con olio e servire.

 

PASTA E BROCCOLI

 

Ingredienti:

 

1 broccolo romano,

aglio, olio, sale, pepe,

300 gr. di spaghetti spezzati

pomodori pelati

30 gr di pancetta,

vino bianco

pecorino o parmigiano

 

Preparazione:

 

Far soffrigere in un tegame bello capiente olio, aglio, pancetta. Lasciare insaporire, dopodichè aggiungere le cime del broccolo, un bicchiere di vino bianco. Lasciare sfumare il liquido e unire, poi, i pomodori, il sale, il pepe e un bicchiere di acqua tiepida. Coprire, lasciare cuocere il broccolo. Quando questo è quasi cotto aggiungere acqua tiepida, facendo in modo che ci sia sufficente liquido per far cuocere la pasta. Calare gli spaghetti spezzati e lasciarli cuocere. Prima di servire spolverare con pecorino o parmigiano.

 

POLLO A BUJONE

 

Ingredienti:

 

Un pollo,

aglio, olio,

rosmarino, sale, peperoncino,

pomodori pelati,

brodo

vino bianco.

 

 

 

Preparazione:

 

In un tegame fare un soffritto con olio di oliva, aglio, rosmarino, peperoncino, aggiungere il pollo tagliato a pezzi. Farlo rosolare per qualche minuto poi sfumarlo con vino bianco. Unire i pomodori, il brodo e lasciarlo cuocere lentamente. Nel frattempo preparare un pesto fatto con aglio, rosmarino, olio di oliva e aceto. Quando i pollo sarà cotto unire il pesto, lasciarlo insaporire per qualche minuto e servirlo.

 

FUNGHI FRITTI DORATI

Ingredienti:

Funghi porcini, ovuli, ferlenghi

uovo sbattuto,

farina,

sale,

olio per friggere.

 

Preparazione:

Pulire i funghi e tagliarli a fettine. Infarinarli e passarli nell’uovo sbattuto. Immergere i funghi in abbondante olio caldo. Scolarli, aggiungere il sale e servirli caldi.

 

 

CASTAGNACCIO CON LA RICOTTA

 

Ingredienti:

 

250 gr. di farina di castagne

350 gr. di ricotta fresca di pecora o mista

300 gr. dilatte

200 gr di zucchero

pezzetti di cioccolato fondente

buccia grattata del limone,

olio,

mezzo bicchiere di rhum,

sale

 

Preparazione:

 

In una terrina miscelare la farina di castagne con il latte e un pizzico di sale. A parte condire la ricotta con lo zucchero, la scorsa grattata del limone, i pezzettini di cioccolato fondente e il rhum.In una tortiera unta con olio versare l’impasto ottenuto dall’unione della farina di castagne e dal latte. Su questo, versare, poi a cucchiaiate sparse la ricotta condita. Irrorare con olio e cuocere nel forno preriscaldato a 180° per circa 30/40 minuti.

 

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Spezzatino di coniglio in umido alla viterbese

Ingredienti:

 coniglio spellato

odori vari: salvia, prezzemolo, rosmarino

300 pomodori pelati

3 acciughe dissalate

olio, aglio, peperoncino

1 bicchiere di vino bianco

2/3 cucchiai di aceto bianco

Preparazione:

In un tegame far rosolare due spicchi d’aglio nell’olio, insieme al peperoncino. Aggiungere i pomodori pelati e lasciare cuocere per alcuni minuti.

Aggiungere il coniglio precedentemente tagliato a pezzetti, lasciarlo cuocere da entrambi i lati, se necessario aggiungere un bicchiere di acqua calda ed infine sfumare con il vino bianco.

Nel frattempo, preparare un pesto fatto con uno spicchio d’aglio, un ciuffo di prezzemolo, la salvia, il rosmarino, le acciughe dissalate ed i cucchiai di aceto bianco. Quando il coniglio è quasi cotto unire il pesto e lasciare insaporire per altri 5 minuti.

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Tozzetti al cioccolato

Ingredienti:

800 gr di farina 00

350 gr di zucchero

250 di cioccolato fondente

180 gr di burro

6 uova

350 di nocciole tostate

vanillina, cannella q.b.

1 bustina e mezza di lievito per dolci

buccia grattata del limone

Preparazione:

In una spianatoia mettere la farina e creare al centro uno spazio dove inserire le uova, lo zucchero, il burro ammorbidito, la vanillina, la cannella, la buccia del limone e la bustina e mezza di lievito. Mischiare tutti gli ingredienti e cominciare a lavorare per bene l’impasto. Se risulta appicciccoso aggiungere altra farina o in caso contrario un pochino di latte. Aggiungere il cioccolato tagliato a cubetti, le nocciole precedentemente tostate e continuare ad impastare. Creare dall’impasto due filoni lunghi, alti un paio di centimetri. Infornare a 180c° per 20/30 minuti. Prima del raffreddamento tagliarli trasversalmente e infornarli di nuovo per qualche minuto in modo da ottenere la croccantezza.

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Minestra con la cicoria

Ingredienti:

 250 gr di pasta

600 gr di cicoria

cipolla, aglio

100 gr di pancetta

dado vegetale

200 gr di pomodori pelati

pecorino q.b.

Sale, peperoncino

Preparazione:

Lessare la cicoria in abbondante acqua. Nel frattempo in un tegame far soffriggere nell’olio, l’aglio, la cipolla, la pancetta, i pomodori pelati. Far restringere il sughetto, poi aggiungere la cicoria, il dado, un litro di acqua bollente e aggiustare di sale e pepe. Lasciare cuocere e quando l’acqua comincerà a bollire, calare la pasta. Condire con pecorino e servire.

 

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